Rinuncia del singolo all’uso del riscaldamento comune. Del Dott. Alberto Celeste Magistrato di Cassazione
Il Dott. Alberto Celeste, Magistrato di Cassazione, e profondo cultore della materia condominiale, ha gentilmente concesso al Presidente Nazionale Avv. Gabriele Bruyère l’autorizzazione alla pubblicazione sul sito dell’Uppi del suo articolo in materia di “rinuncia del singolo all’uso del riscaldamento comune” redatto per la rivista La Proprietà Edilizia a cura dell’ARPE di Roma e da questa già pubblicato sul numero 11 del Novembre 2013.
Si ringrazia il Dott. Celeste per il notevole contributo giuridico alla vexata quaestio e per la generosità manifestata nei confronti del nostro sindacato.
LA RINUNCIA DEL SINGOLO ALL’USO DELL’IMPIANTO DI RISCALDAMENTO CENTRALIZZATO
(articolo di commento per la rivista La Proprietà Edilizia a cura dell’ARPE di Roma)
di Alberto Celeste – Magistrato
Quasi dieci anni or sono, nelle pagine di questa Rivista – v. il mio articolo di commento Il distacco del singolo condomino. Proprietà e gestione dell’impianto comune di riscaldamento, n. 10, ottobre 2004, pag. 41 ss. – avevo avuto modo di rilevare che la predetta iniziativa costituisse una tematica di notevole rilievo, in considerazione, da un lato, della tendenza sempre più diffusa a dotare le unità immobiliari di impianti autonomi per realizzare servizi più consoni alle esigenze di comodità della singola proprietà, in modo da consentire ai singoli di fruire del servizio di riscaldamento secondo modalità differenziate e flessibili in relazione ai particolari bisogni (soprattutto in termini di periodo e di orario), e, dall’altro, dell’esigenza crescente a realizzare comunque un risparmio economico a fronte della lievitazione dei costi in materia.
Era altrettanto evidente, però, che qualora ci si muovesse all’interno di un condominio che, nel suo complesso e secondo la volontà della maggioranza dei condomini, non intendesse dismettere il servizio di riscaldamento centralizzato, la (legittima) aspettativa del singolo condomino a fornirsi di impianto autonomo doveva essere contemperata con le (altrettanto legittime) pretese, tecniche ed economiche, degli altri comproprietari, rispettivamente, a continuare ad usufruire di un servizio efficace e a non aggravare le spese complessive.
Sul presupposto, dunque, che il distacco del singolo o di più condomini, senza autorizzazione dell’assemblea, dalle diramazioni dell’impianto centralizzato di riscaldamento costituisce ancora un argomento di grande attualità, e rappresenta, al contempo, un momento di ricorrente conflitto all’interno del condominio, con ovvie ricadute per quanto concerne lo “sfogo” giudiziario, la legge n. 220/2012 – entrata in vigore il 18 giugno 2013 – si è opportunamente occupata (e preoccupata) di tale iniziativa, anche se la relativa disciplina, per la tecnica utilizzata, sta creando molti problemi agli operatori del settore.
Premesso che distaccarsi unilateralmente dall’impianto di riscaldamento non vuol dire rinunciare alla propria quota di proprietà sullo stesso, ma, più semplicemente, rinunciare al servizio comune, in quanto reso alla comunità condominiale – tanto che tale iniziativa non è irreversibile, potendo sempre lo stesso condomino o, probabilmente, il suo acquirente, riattaccarsi in un secondo momento all’impianto comune – l’intervento del legislatore riformatore è stato nel senso di modificare l’art. 1118 c.c. il quale, dagli originari due commi, ha registrato il raddoppio dei capoversi.
La fattispecie risulta ora compiutamente regolamentata nel comma 4, che oggi prevede: “Il condomino può rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini. In tal caso il rinunziante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma”.
A ben vedere, l’ipotesi di una rinuncia all’utilizzo dell’impianto centralizzato di “condizionamento”, pur contemplata dalla norma, risulta assai rara, se non addirittura inesistente nella prassi, specie se correlata ai presupposti, tecnici ed economici, che dovrebbero essere rispettati ed agli obblighi che sarebbero a carico del condomino rinunciante.
La disposizione della novella si pone sostanzialmente in linea con la giurisprudenza più recente che si era formata sul punto, nel senso che il condomino potesse legittimamente rinunciare all’uso del riscaldamento centralizzato e distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall’impianto comune, senza necessità di approvazione da parte degli altri condomini, se provava che, dalla sua iniziativa, non derivassero né un aggravio di spese per coloro che continuavano a fruire del riscaldamento centralizzato, né uno squilibrio termico dell’intero edificio, pregiudizievole per la regolare erogazione del servizio.
Soddisfatte tali condizioni, alla luce della riforma del 2013, il singolo risulta obbligato a saldare soltanto le spese di manutenzione straordinaria (e non più ordinaria) dell’impianto di riscaldamento centrale, nonché per la sua conservazione (oltre la messa a norma), mentre risulta esonerato dall’obbligo del pagamento delle spese per il suo uso (ad esempio, per l’acquisto del gasolio), né sembra dover più corrispondere quel contributo in percentuale, concordato tra le parti o stabilito dal magistrato, che – ad avviso della suddetta giurisprudenza – doveva essere imposto a compensazione dei possibili aumenti di spesa per gli altri partecipanti (tenendo conto, altresì, che i condomini adiacenti all’appartamento distaccatosi potrebbero subire un calo della resa termica nella loro unità immobiliare o, comunque, “faticare” di più a scaldarsi).
Viene, dunque, confermato il principio secondo cui, anche in assenza di una deliberazione assembleare autorizzatoria in tal senso, una volta venuta meno la possibilità che determinati locali in proprietà al condomino rinunciante fruiscano del riscaldamento, l’impianto non possa considerarsi destinato al servizio della relativa unità immobiliare, sicché il proprietario di quest’ultima non deve ritenersi tenuto a contribuire alle spese per un servizio che, nei confronti del suo immobile, non viene prestato.
In parole povere, il legislatore riformatore ha scritto la norma in esame al fine di consentire il distacco del singolo, seppure a determinate condizioni – purtroppo, taciute nei vari messaggi pubblicitari lanciati dai mass media, che inneggiavano disinvoltamente alla completa e piena liberalizzazione – ma il precetto normativo, proprio per l’uso dei termini scelti, potrebbe essere letto in senso opposto allo scopo perseguito.
Più nel dettaglio, il nuovo comma 4 dell’art. 1118 c.c. consente al singolo la rinuncia dal servizio “se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento” e, in proposito, si potrebbe evidenziare il fatto che, ad avviso dei tecnici, un impianto centralizzato di riscaldamento, creato e tarato per tot unità immobiliari, non possa funzionare in modo altrettanto efficace in caso anche di un solo distacco (a fortiori, se al distacco legittimo di un condomino, si aggiungano successivamente i distacchi “selvaggi” degli altri).
Il problema nasce soprattutto dall’utilizzo dell’aggettivo qualificativo “notevoli” che, costituendo una valutazione astratta, potrebbe ingenerare confusioni, poiché, secondo il suddetto disposto, il distacco del singolo condomino dall’impianto centralizzato di riscaldamento sarebbe legittimo allorché arrechi degli squilibri non notevoli al funzionamento dell’impianto centralizzato, dando àdito a problematiche applicative – all’interno del condominio, prima, e nelle aule giudiziarie, poi – in ordine alla quantificazione dello squilibrio.
Inoltre, si potrebbe ritenere che il legislatore del 2013 non abbia voluto connettere l’aggettivo “notevole” agli “aggravi di spesa per gli atri condomini”, in quanto, in effetti, tra le parole “notevoli squilibri di funzionamento” e “aggravi di spesa” ha utilizzato la disgiunzione “o”; ciò starebbe a significare che l’aggettivo “notevoli” sia accostato unicamente agli squilibri di funzionamento, ma non agli aggravi di spesa: in quest’ottica, sarebbe sufficiente l’aumento di pochi centesimi di euro a carico degli altri condomini perché si concretizzi “l’aggravio di spesa” e, quindi, il distacco sia illegittimo, per cui, seppure lo squilibrio funzionale fosse minimo, ma il distacco determinasse un piccolo aumento economico, la rinuncia al servizio sarebbe comunque vietata.
Ragionando diversamente, anche per offrire un senso razionale ad una norma altrimenti inoperante in concreto, ossia correlando l’aggettivo “notevoli” anche agli aggravi di spesa, l’iniziativa del singolo sarebbe legittima purché – fermo il presupposto tecnico della non alterazione dello squilibrio – l’aumento del relativo costo a carico degli altri partecipanti sia contenuto nel limite della tollerabilità.
A questo punto, però, sorge il problema di verificare in pratica i summenzionati presupposti per la legittimità del distacco de quo e, in particolare, di individuare il soggetto deputato a valutare la sussistenza degli stessi presupposti e quali siano le corrette modalità per realizzarlo.
Con tutta probabilità, il condomino che assume volontariamente tale iniziativa provvederà ad affidare ad un tecnico specializzato del settore l’incarico di redigere una perizia in ordine alla fattibilità dell’intervento, con il rischio che si possano fornire pareri interessati, espressi da rivenditori di caldaie unifamiliari o da soggetti improvvisati, unicamente intenzionati ad eseguire l’opera (tale perizia deve essere redatta da un tecnico abilitato, secondo quanto prescritto dal d.m. n. 37/2008 e dal recente d.p.r. n. 74/2013).
Nulla esclude, però, che il condomino si distacchi tout court, o dichiari semplicemente non sussistere squilibri e aggravi di spesa, oppure, per correttezza, faccia partecipe – per il tramite l’amministratore – gli altri condomini della perizia all’uopo redatta (resta fermo, per gli impianti termici installati dopo il 31 agosto 2013, l’obbligo di collegarsi a canne fumarie o a sistemi di evacuazione dei prodotti della combustione sopra il tetto dell’edificio, in base all’art. 17-bis del decreto-legge n. 63/2013, convertito dalla legge n. 90/2013, che, a sua volta, ha modificato l’art. 5 del d.p.r. n. 412/1993).
In quest’ultima (ed auspicabile) ipotesi, i restanti partecipanti al condominio non sono tenuti ad accettare le conclusioni del tecnico di parte senza possibilità di replica, sicché, una volta ricevuta la perizia, potranno riunirsi in assemblea per deliberare se avallare l’iniziativa del singolo o dare l’incarico ad un tecnico di loro fiducia al fine di accertare l’effettiva sussistenza dei presupposti di legge, restando inteso che, qualora le perizie portassero a conclusioni divergenti, l’unica strada per risolvere il conflitto è, purtroppo, quella giudiziaria.
Per completezza, va segnalato che, diversamente dal passato, sembra delinearsi recentemente, specie a livello europeo, un trend di sfavore verso la trasformazione dell’impianto centralizzato in autonomo: é vero che il “distacco” è ipotesi parzialmente diversa dalla “trasformazione”, ma è altrettanto vero che, alla fine, più distacchi determinano, di fatto, se non una trasformazione comunque una duplicazione di sistemi di riscaldamento all’interno del medesimo edificio, e ciò non è in linea con la ratio della vigente legislazione che si muove dal presupposto che la trasformazione da centralizzato a termoautonomo non sia affatto un’opera volta al risparmio (ad esempio, dieci caldaiette unifamiliari comunque consumano ed inquinano più di un’unica caldaia centralizzata, senza considerare che più caldaie singole si traducono in più rischi, anche perché i controlli per la sicurezza sugli impianti autonomi sono affidati alla serietà del singolo, senza possibilità di intervento da parte dell’amministratore).
All’asserita contrarietà del nuovo disposto legislativo statale ai principi europei, si aggiungerebbe, poi, un contrasto con alcune legislazioni regionali che, proprio in applicazione di tali principi, hanno già disciplinato la materia in modo vincolante; in effetti, la normativa statale dovrebbe ritenersi cedevole, ossia suscettibile di essere sostituita dalla legislazione regionale in caso di esercizio della concorrente potestà legislativa che, però, non potrebbe realizzarsi se non nel rispetto della disciplina di fonte comunitaria in forza dell’art. 117, comma 1, Cost. (v., per tutte, la legge della Regione Piemonte 28 maggio 2007 n. 13, che vieta il distacco sopra le quattro unità abitative e sanziona la trasgressione con multe molto salate).